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维瓦尔第的歌剧唱片收藏及版本 [复制链接]

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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》5

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》5
Verdi dichiarò più volte, anche come reazione ad alcune critiche, di conoscere e apprezzare molto bene Shakespeare, avendolo letto fin dalla prima gioventù. Infatti l’ambizione di musicare King Lear è stata presente per tutto l’arco della sua esistenza senza aver mai potuto realizzarsi pertanto, prima o poi, un’opera shakespeariana sarebbe sicuramente nata dalla penna di Verdi. Subito dopo l’Attila, Verdi prevedeva di scrivere altre opere tra cui era probabile un King Lear o The Corsair. Per problemi di salute non poté tener fede a questi contratti, ma appena ripresosi, accettò di scrivere per Lanari un’opera da rappresentare tra il Carnevale e la Quaresima del 1847. Era indeciso tra tre soggetti, l’Avola, i Masnadieri e Macbeth, ma poi la scelta si strinse tra i Masnadieri e Macbeth. La scelta definitiva era consequenziale alla possibilità di scritturare il tenore Fraschini. Non potendolo avere Verdi lasciò i Masnadieri, che aveva già iniziato a scrivere, e si dedicò al Macbeth, dopo essersi assicurato di poter scritturare il baritono Varesi. Interprete femminile avrebbe dovuto essere Sofia Loewe, ma in realtà fu sostituita dalla Barbieri-Nini. La scelta dei tre soggetti era la diretta conseguenza della frequentazione con Maffei. La prima dell’opera si tenne a Firenze il 14 marzo del 1847.
Parlare del libretto di Macbeth significa parlare di Verdi come inventor attivo nella genesi del testo. Caratteristica di quest’opera è l’assenza del tema amoroso, che non è l’argomento prediletto da Verdi, che invece ricerca le grandi passioni, i grandi affetti, qualunque ne sia l’oggetto: l’amante, il genitore, il potere o la patria. In una lettera all’impresario Lanari, Verdi precisò che il soggetto dell’opera non era né religioso, né politico, ma fantastico. È opinione di alcuni critici che l’incontro Verdi-Shakespeare sia dovuto ad un’affinità intellettuale, oppure semplicemente al rispetto e adesione alle norme di una ars che porta alla realizzazione di prodotti unici e irripetibili, o addirittura alla casualità nella scelta dei soggetti, dettata soprattutto dalla disponibilità degli interpreti. In realtà ciò che Verdi cerca in Shakespeare è l’elemento drammatico, gestuale, la frase impressiva, quella che pronunciata sul palcoscenico viene subito colta e tradotta in emozione.
Verdi attinge soprattutto da Rusconi il quale, nella sua fase di studio e traduzione, aveva evitato di censurare le idee di Shakespeare e del suo tempo, aveva utilizzato lo stesso metodo di lavoro di Verdi fatto di analisi capillare di tutti i codici inglesi e aveva letto tutto quello che su di lui si è scritto, rispettando pratica interpretativa, registica e scenica inglese. Rusconi giustifica la scelta della prosa per la traduzione per la sua capacità intrinseca di nobilitare o meno il contenuto, poiché convinto che voler tradurre anche la bellezza di suono di un’opera è impresa ardua ancorché impossibile. Pertanto l’importante è, nella traduzione, rendere, con tutti i suoi elementi, l’idea dell’autore. Verdi condivide tutto ciò e struttura il suo Machbeth secondo una poetica degli stili che lo fa parlare sempre e solo di linguaggio o di stile sublime e triviale. Egli è pronto a sacrificare la bellezza formale per l’intensità concettuale ed emotiva, tanto da richiedere esplicitamente di versificare nella maniera più idonea ad esprimere ciò che l’azione esige. Rusconi, quindi, aveva anche il pregio di semplificare simboli ed implicazioni storiche e tradurre il suo Shakespeare secondo l’esempio dei traduttori veneti che lo avevano preceduto, smorzandone le punte di intellettualismo verbale barocco, riconducendolo alle sue concrete basi storiche, senza nulla togliere alla sua drammaticità. Le sue, in quanto traduzioni non propriamente letterali e fedeli, si presentano però molto efficaci dal punto di vista drammaturgico. Carcano e Maffei danno sì una versione più riflessiva di Shakespeare ma lo privano anche, soprattutto Maffei, del suo mordente teatrale. Per cui Verdi avrebbe comunque preferito Rusconi per il suo carattere positivo, per il linguaggio capace di variare dallo stile alto allo stile basso e per il corredo di notizie che rendevano comprensibile l’esotismo di Shakespeare e lo attualizzavano in senso storico e geografico. Proprio la prosa drammatica del traduttore bolognese permetteva a Verdi di scegliere nella massima autonomia, senza le mediazioni ingombranti di una lingua troppo elaborata e compiuta dal punto di vista formale. Anche nella revisione al Macbeth di vent’anni dopo, Verdi si affiderà al testo di Rusconi per suggerire a Piave l’aria di Lady Macbeth del secondo atto.
Il libretto verdiano di Macbeth sembrava essere nato secondo il seguente schema:

    Organizzazione drammatica di Verdi (sceneggiatura e abbozzo del testo letterario) con lo stimolo e i suggerimenti di Maffei;
    Versificazione e accomodamento linguistico di Piave sotto la guida attenta e puntigliosa di Verdi;
    “Raggiustamento” e stesura definitiva di Maffei.

Ma questo schema è stato modificato. Il punto di partenza sono le posizioni, le situazioni drammatiche e, in base a ciò, vengono eliminati i personaggi non catalizzatori. Pertanto i personaggi verdiani non valgono tanto come entità psicologiche autosufficienti quanto come vicende, attori-agiti dalle situazioni; e sono le situazioni, non i personaggi, che determinano le opposizioni così peculiari alla drammaturgia verdiana.
Una volta decise le scene e i personaggi, Verdi sceglie le battute, ma anche questa non è un’operazione meccanica: sposta le battute da un protagonista all’altro e da una scena all’altra, allorché la battuta può essere strumentalizzata al fine dell’effetto scenico.
Quindi a Piave restava solo da versificare il canovaccio fornito da Verdi che altro non è che il riassunto delle scene inframmezzate da citazioni letterali del testo di Rusconi. Piave in pratica è l’amanuense di Verdi. Le note di Verdi inviate a Piave sono fatte di una terminologia elementare ma non generica, egli infatti raccomanda: “versi […] brevi ”, “pezzi brevi”, “poche parole ma significanti”, “stile […] elevato”, “stile conciso”…, cosa che Piave esegue nel miglior modo possibile. Caratteristiche di questo libretto sono: battute brevi con un massimo di informazioni, con dialoghi rapidi che riassumono in poche parole azioni a cui gli interlocutori hanno partecipato o parteciperanno; una sintassi scarna le cui unità coincidono con le unità metriche; un vocabolario aulico ma economico e ricco di metafore.
Diversamente da Shakespeare l’opera di Verdi inizia con l’incontro fra le streghe, Macbeth e Banco, e pertanto il libretto esclude la prima e la seconda scena dell’originale shakespeariano. La scena dell’incontro tra Macbeth e le streghe, seppure sfasata numericamente rispetto all’originale shakespeariano, resta abbastanza fedele lasciando intatto, nel libretto, il peso semantico dell’ “opra senza nome” che le streghe stanno tessendo attorno a Macbeth.
Verdi richiede un linguaggio sublime per i personaggi principali ed uno triviale, stravagante ed originale per le streghe, rifacendosi al commento di Schlegel che fa notare come anche in Shakespeare le streghe abbiano un linguaggio magico e particolare, fatto di formule e scongiuri, oltre all’utilizzo di nomi di oggetti nauseanti. Ubbidendo alle direttive di Verdi, Piave compone per il coro iniziale delle streghe versi tronchi e per quello del terzo atto una serie incredibile di sdruccioli. La concatenazione degli ottonari tronchi, tutti caratterizzati da un verbo al futuro, rappresenta la vorticosità convulsa dell’agire delle streghe, che in Shakespeare è scandita contemporaneamente da parola e azione (danza e ripetizione di parole e numeri legate al tre). Le tre streghe shakespeariane sono sostituite da tre crocchi di streghe, mantenendo il numero magico tre ma moltiplicato nei suoi multipli. In tutta l’opera la versificazione è particolarmente curata: Verdi richiedeva una rigorosa suddivisione in strofe per le arie e che tutto fosse vario e alternato in modo da poter scrivere musica che non risultasse fredda e monotona. In pratica chiedeva di variare il metro: “più vi sarà varietà di metri, più vi sarà varietà nella musica”. Pertanto in questo libretto ogni forma ritmica, dal dodecasillabo al quaternario, è presente in funzione della varietà musicale. Spesso Piave, nell’incertezza della selva verdiana, attinge da Rusconi e Leoni. Durante la lavorazione del libretto, l’impresario Lanari fece sapere che durante la Quaresima non sarebbe stato permesso fare danze in scena e che, pertanto, andava eliminato il balletto degli spiriti. Ma Verdi non volle saperne e pretese che Piave scrivesse il balletto con il coro arrivando addirittura a suggerirgli il Recitativo per la successiva scena di Lady Macbeth. Verdi pretese un coro di esuli all’inizio del quarto atto, nell’unico momento patetico di tutta l’opera. Nonostante l’impegno di Piave, il compositore restò risentito e fece riscrivere il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo da Maffei, arrivando persino ad omettere il nome di Piave dal frontespizio del libretto.
È emersa un’incongruenza, da alcuni carteggi, relativamente all’intervento di Maffei sul libretto del Macbeth; le sue correzioni non sembrano corrispondere a quelle che Verdi gli aveva richiesto. Ciò che è chiaro è che:

    Il lavoro di Maffei fu sofferto quanto quello di Piave, tante sono le correzioni e  i ripensamenti che si notano sul foglio;
    Verdi fu censore implacabile anche per Maffei, cosa evidente dal fatto che il testo stampato è ulteriormente modificato rispetto al suo lavoro;
    Maffei non intervenne quale esperto conoscitore di Shakespeare perché gli sfuggirono errori della traduzione di Rusconi.

Ciò che davvero Verdi aggiudica a Maffei è la scena del sonnambulismo e il coro delle streghe del terzo atto, anche se in quest’ultimo caso il vocabolario stravagante delle streghe esisteva già. A questo punto possiamo scandire una revisione del processo creativo del libretto del Macbeth:

    Organizzazione della struttura drammatica da parte di Verdi sulla base delle traduzioni di Rusconi.
    Stesura del testo poetico da parte di Piave probabilmente sulla traduzione di Michele Leoni.
    Revisione di Maffei.
    Revisione finale di Verdi.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》6

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》6
Dal punto di vista della messa in scena, di solito era il librettista a dare indicazione all’impresario, ma in questo caso fu Verdi ad essere in contatto con Lanari fin dall’inizio, chiedendogli di non badare a spese. Voleva che le streghe fossero divise in tre drappelli di non meno di sei; per l’apparizione degli otto Re occorreva una lanterna magica ed essi non dovevano essere dei fantocci ma persone in carne ed ossa e dovevano passare sopra una montagnola in modo che il pubblico li vedesse salire quando entravano e scendere quando uscivano; il fantasma di Banco doveva uscire da una buca del palcoscenico per comparire all’improvviso indossando un velo grigio e avere delle ferite sul collo. Le esigenze sopracitate, sottolinea Verdi, erano dovute alla sua conoscenza di come l’opera veniva messa in scena a Londra da più di duecento anni, e perciò dovette superare le difficoltà che Benedetti aveva nell’interpretare la parte del fantasma. Fu esigente anche nel richiedere scene e costumi, poiché il periodo in cui è ambientata l’opera era il 1040-1057, non ci dovevano essere né seta né velluto nei costumi. Inviò anche istruzioni a Varesi su come avrebbe dovuto interpretare la sua parte, dando molta importanza al testo. Per Lady Macbeth la parte era stata affidata alla Tadolini giudicata da Verdi troppo angelica sia nell’aspetto che nella voce. Egli chiede quindi una Lady non bella e con una voce aspra, soffocata e cupa, poiché i suoi versi non andavano cantati ma agiti e declamati con voce cupa e velata. Durante le prove Verdi fu molto esigente. La sera della prima, l’accoglienza del pubblico fu caldissima: Verdi fu chiamato al proscenio venticinque volte e accompagnato al suo alloggio da una folla plaudente. La critica fu per lo più positiva, salvo un lettore del giornale fiorentino Il Ricoglitore che definì Macbeth una vera porcheria. Qualcuno ritenne i versi del coro delle streghe ridicoli (proprio quelli di Maffei). Il poeta Giuseppe Giusti contestò a Verdi la scelta di un soggetto straniero ma il Maestro, pur dichiarandosi d’accordo, osservò che non era facile trovare un poeta che sapesse esprimere tali ideali in un libretto d’opera. Verdi dedicò quest’opera al suocero Antonio Barezzi, ritenendola la più degna per l’uomo che gli era stato padre, benefattore ed amico.
Nel 1848 l’opera fu eseguita al San Carlo di Napoli, anche in questo caso Verdi inviò consigli sulla messa in scena tramite il librettista Cammarano con cui era in contatto per La battaglia di Legnano. Nel 1852 gli fu richiesto di scrivere un’opera per Parigi ma Verdi pretese che il Macbeth venisse montato nella stessa stagione. Il progetto andò in porto solo nel 1863, nonostante l’impresario non avesse le stesse risorse finanziarie dell’Opéra. Verdi non si recò a Parigi ma riguardando la spartito si rese con di dover apportare alcuni cambiamenti:

    Inserire un’aria di Lady Macbeth nel secondo atto.
    Rifare diversi squarci della visione dell’atto terzo.
    Rifare completamente l’aria di Macbeth.
    Ritoccare le prime scene dell’atto quarto.
    Rifare l’ultimo finale togliendo la morte di Macbeth.
    Inserire un balletto.

La revisione fu molto più estesa del previsto, pertanto Verdi chiese a Carvalho di ritardare la messa in scena. Decise di lasciare il primo atto per lo più inalterato a parte pochi ritocchi nel Duetto; per il balletto, che poteva essere fatto solo al principio dell’atto terzo dopo il coro, vi erano delle difficoltà dovute al fatto che, in scena, c’erano solo le streghe e non si potevano far entrare altri personaggi come Silfi e Spirti poiché sarebbero entrati quando Macbeth fosse svenuto. Il balletto diventò un misto di balletto e mimo. Per la revisione del libretto si rivolse nuovamente a Piave, rientrato nelle sue grazie, ma il testo dell’aria di Lady, nell’atto secondo, lo scrisse egli stesso, poiché volle dargli lo spirito di una cabaletta: non una vera e propria cabaletta ma poche frasi impetuose in tempo veloce. L’aria finale di Macbeth dell’atto terzo venne sostituita da un duetto con Lady Macbeth, lasciando invariata la strumentazione. La scena della Battaglia venne strutturata in forma di fuga. Verdi voleva che la traduzione fosse fatta da Duprez, poiché era anche un musicista, ma Carvalho affidò il lavoro a Nuttier e Beaumont e si permise di suggerire a Verdi di far cantare il brindisi della scena del banchetto a Macduff piuttosto che a Lady, visto che aveva un’unica aria, ma Verdi rispose che questo avrebbe avuto effetti disastrosi dal punto di vista drammatico. L’esecuzione avvenuta nel 1865 fu nel contesto un fiasco che sorprese e deluse Verdi.
Tra la versione del 1847 e quella del 1865, la seconda risulta essere più completa e stilisticamente più coerente, grazie ai tocchi di genio di cui Verdi ha fornito la seconda versione. Già dalla versione del 1847, il rapporto con Shakespeare aveva portato Verdi a venir fuori dalla routine operistica, ma Macbeth lo porta verso una nuova libertà dopo gli “anni di galera”. In quel momento Verdi fu portato a scegliere Macbeth piuttosto che Amleto o Otello, in quanto il soggetto offriva l’opportunità della combinazione baritono-soprano drammatico, ma soprattutto per il personaggio stesso di Macbeth. Verdi era attirato dalle personalità complesse, dagli uomini in cui un interno conflitto fra bene e male si ripresenta ad ogni nuova situazione: i conflitti interni di Macbeth lo portano ad azioni sempre più violente e, nel 1847, questa energia rozza e vulcanica era ciò che Verdi cercava. Non ebbe difficoltà ad esprimere l’essenza drammatica del personaggio, nonostante la sintesi a cui aveva dovuto sottoporre il soggetto per poterlo musicare, soprattutto nella prima versione, infatti la difficoltà per la messa in scena di tale opera sarebbe stata proprio quella di trovare un baritono capace di sostenere il ruolo del protagonista. La violenza di Macbeth è sempre crescente, ma nonostante ciò il personaggio, grazie al genio di Shakespeare, riesce a suscitare la nostra compassione e il personaggio femminile è la sua partner criminale perfetta, per le sue qualità complementari a quelle di Macbeth: è fredda, spietata e marcia dentro. Mentre Macbeth acquista forza e coraggio dalla capacità di sondare gli abissi della propria anima, le debolezze della Lady sono come riflessi inconsci. Avrebbe ucciso lei stessa Duncano se non le avesse ricordato suo padre. Verdi non ha avuto bisogno di definire ulteriormente i due caratteri, in quanto il baritono e il soprano drammatico si contrastano e si complementano in ogni caso.
Nove anni dopo, nel 1874, la versione francese fu data in Italia alla Scala, ma la sua messa in scena non suscitò reazioni di particolare interesse essendo cambiato radicalmente il contesto rispetto a quello della prima versione. Semplicemente il pubblico e la critica presero coscienza che quegli anni non erano passati invano, anzi ciò che prima aveva suscitato riserve e scandali, veniva preso come segno distintivo della poetica e dello stile del primo Verdi.
Il pubblico, in generale, era attirato soprattutto dagli aspetti più insoliti ed esteriori delle messe in scena, come quelli legati alla rappresentazione del fantastico, piuttosto che agli elementi realmente innovativi nell’ambito di quest’opera e cioè l’assenza dell’elemento amoroso e la centralità riservata alla deformità morale e psicologica, attorno alla quale ruota l’intero dramma musicale. Il cattivo e la negatività arrivano ad avere una loro fisionomia; il gusto romantico veniva però ritenuto elemento buono per una tragedia ma non per un’opera in musica. La trivialità delle streghe urtò la sensibilità degli spettatori, ma il loro utilizzo non è il risultato di ingenuità o trasandatezza bensì un effetto voluto: “non la terribile e nobile grandiosità del Male bensì la spregevole materialità di personaggi che si trasfigurano”. Si ipotizza che non sia la natura fantastica delle streghe a disturbare la sensibilità degli spettatori di metà ’800 quanto l’ostentata trivialità della loro rappresentazione.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》7

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》7
Il Preludio dell’atto primo è lo stesso in entrambe le versioni; qui Verdi resta fedele all’incipit shakespeariano presentando il tema che si riferisce al coro delle streghe, che rende alla perfezione la loro stridula malevolenza attraverso l’ambiguità ritmica provocata dall’inizio a metà battuta, il trillo all’unisono dei tre strumenti a fiato e l’irrequieta figurazione dei primi violini, che culmina in una nona minore. Dopo il Preludio vi è, come sempre, uno stacco prima dell’Introduzione che inizia in una tonalità differente da quella precedente. La musica rappresenta una tempesta e la scena si svolge in una radura desolata, nella quale alla tempesta sembra mescolarsi una risata soprannaturale. La musica ha uno schema tripartito per consentire a ciascun crocchio di streghe di fare il proprio ingresso separato basato su una filastrocca “m’è frullata nel pensier”, sulla moglie di un marinaio. Verdi esprime il senso di fatalità tramite una tonalità minore, armonie cupe, orchestrazione stridula, acciaccature, irregolarità strutturale delle battute, soprattutto alle parole “ma lo sposo”, vi è lo spostamento dell’accento principale dal primo al terzo tempo della battuta. Vi è un’interruzione data da un tamburo fuori scena, al quale segue il girotondo de “le sorelle vagabonde”, caratterizzato da un accompagnamento in maggiore che risulta di effetto per un’opera del 1847, ma non regge la tensione del fantastico.
L’ingresso di Macbeth e Banco è sottolineato da un Recitativo di archi dal sapore di marcia. La profezia delle streghe è di nuovo in uno schema tripartito: le profezie relative a Macbeth e a Banco sono differenti e pertanto orchestrate in modo diverso. Quando le streghe escono di scena, un coro maschile, accompagnato da un impetuoso motivo orchestrale, annuncia la condanna di Caudore e l’assegnazione a Macbeth delle sue terre e del suo titolo. Segue un Duetto, non una Cavatina come da tradizione, che è atipico ed asimmetrico: le due voci, prima di unirsi nelle seste e terze d’obbligo, percorrono una parabola molto più ampia del solito; la coda presenta l’intervento del coro di bassi. Il duettino mette insieme due monologhi che avrebbero dovuto essere consecutivi e contrastanti. Quando i due si allontanano ricompaiono le streghe con un coro “S’allontanarono”, che in Shakespeare non esiste, ma che è appropriato dal punto di vista drammatico, poiché è il grido di trionfo delle streghe che, avendo piantato i semi del male, devono solo aspettare che diano i frutti.
La scena successiva, corrispondente alla I, 5 di Shakespeare, è la tipica Aria con Cabaletta: qui Lady Macbeth entra leggendo una lettera, cosa che le consente di fare un ingresso sensazionale, accompagnata da un preludio strumentale potente. In questa scena tutto è espressione di potenza e qui troviamo gli stessi salti, gli stessi ritmi frastagliati di Abigaille, che richiedono un registro basso di reale potenza, il tutto arricchito dall’esperienza musicale di cinque anni. Poi un servo annuncia l’arrivo di Duncano su un ritmo militaresco e la Lady attacca la Cabaletta “Or tutti sorgete”. Nella Cabaletta Lady Macbeth pronuncia le parole più terribili del suo ruolo. Unica sua paura sono le sue reazioni inconsce che la porteranno alla distruzione. Entra Macbeth e il loro dialogo è brevissimo e Verdi sottolinea le parole più importanti con accordi di ottoni in una tonalità lontana. L’azione è interrotta dal suono fuori scena di una banda e Lady chiede imperiosamente al marito di seguirla a incontrare il Re; la sua natura imperiosa è espressa da una cadenza con volata discendente di due ottave.
Il pezzo che segue è una marcia in sei ottavi, spesso criticata ma anche difesa. Come ogni musica da banda, la sua funzione è puramente scenica: non è stata composta per essere ascoltata e giudicata come musica in sé; la sua funzione è quella di consentire a Duncano di attraversare il palcoscenico con tutto il suo seguito e mimare lo scambio di alcune parole di cortesia con i suoi ospiti. Il personaggio non è caratterizzato da un’ aria, poiché sarebbe stato eccessivo dare, ad un terzo personaggio (che per di più muore nel primo atto) oltre a Banco e Macduff, il ruolo di comprimario o semiprotagonista. Analogamente il monologo filosofico di Macbeth viene eliminato poiché sarebbe stato eccessivo per il pubblico italiano: eliminandolo Verdi concentra il dramma e riduce il I atto a proporzioni maneggevoli. L’unica conseguenza dannosa è che Lady Macbeth viene privata di un’occasione per riassumere l’offensiva, per cui avrà bisogno di un’altra aria nel momento in cui dovrà esibire tutta la sua forza.
Alla fine della marcia Macbeth è impegnato a preparare l’assassinio. Il Recitativo e il Duetto che seguono, devono essere eseguiti, secondo le direttive di Verdi, sottovoce e con voce cupa per incutere terrore: solo Macbeth ha delle frasi da cantare a voce forte e spiegata. Tutto ciò è sostenuto da un’orchestrazione particolare: flauto, corno inglese, clarinetto, corni, fagotti, timpani e archi con sordina, che variano colore, si spostano e cambiano insieme alle immagini che passano per la mente di Macbeth. Questo è il Recitativo più possente scritto da Verdi prima di “Pari siamo” e si chiude con un rintocco di campana. Macbeth entra nella camera di Duncano accompagnato da un tutti orchestrale da cui emergono i corni; pian piano il tutto si spegne con accordi di archi che creano un silenzio palpabile nel quale Macbeth si chiede chi ci sia e sua moglie si chiede se egli abbia fallito il colpo. Ma subito dopo Macbeth appare stravolto, con un pugnale macchiato di sangue in mano e la sua frase “Tutto è finito”, viene sviluppata dagli archi, accompagnamento che ha un’energia che conduce la musica a creare lo sfondo ideale per lo scambio di battute tra marito e moglie. Questo sfondo cessa nel momento in cui Macbeth racconta che due cortigiani pronunciano le frasi “Dio sempre ne assista” e “Amen”; questa scena è sottolineata dai clarinetti che assumono un tono implorante e, sulla parola “Follie” della Lady, ritorna l’accompagnamento precedente. Segue un Andantino che Verdi struttura a tre parti dove l’orchestrazione è resa più sinistra attraverso due tromboni e una grancassa. Ciò che segue non è riconducibile a Shakespeare, poiché è la musica a fare da padrona rivendicando i suoi diritti formali. La risposta della Lady è in maggiore, accompagnata da un pizzicato d’archi e da una frase di violoncello e clarinetto; con la tonalità maggiore si bilancia la sezione precedente e si apre la via ad una tipica esplosione lirica. Nell’aria “Com’angeli d’ira” Piave utilizza il monologo filosofico della scena I, 7 di Shakespeare, consentendo a Verdi di sdebitarsi col poeta per la libertà presasi nella scena precedente. Da questo punto in poi, la partitura del 1865 si discosta da quella originale. L’episodio di transizione che segue è nel tempo veloce originale. Qui il dialogo continua in un parlante sostenuto dall’orchestra. L’unico cambiamento rispetto al 1847 è nell’accompagnamento della melodia orchestrale che è abbellito da parti interne “interessanti” e orchestrato con più leggerezza. Quando la Lady tenta di condurre il marito altrove, vi è una Stretta in Fa minore (minore che ha caratterizzato tutto il Duetto) di cui Verdi conserva le prime nove battute della versione del ’47 e dalla decima inserisce, un basso contrappuntistico in quella del ’65.
Il Finale fu lasciato nella versione originale perché costituisce un esempio magnifico di finale, spazioso e compatto. Il Recitativo di Macduff, simile a quello impiegato nel Duetto, è elaborato in un crescendo che descrive la crescita del terrore di Macbeth. Macduff va a svegliare il Re e, poiché il personaggio di Lennox nell’opera non esiste, tocca a Banco pronunciare il monologo “Oh, qual orrenda notte”. Quando Macduff esce dalla stanza sconvolto dal terrore, l’orchestra l’accompagna con furiosa energia. Chiama la servitù a raccolta e arrivano anche Macbeth e la moglie che simulano smarrimento, il tutto su scale degli archi, violenti contrasti di forti e di piano, sincopi e brutali accordi degli ottoni. Quando cessa il frastuono, Banco annuncia l’assassinio del Re. Il Finale si sviluppa dal motivo “Tutto è finito” con procedimenti dinamici rovesciati (si apre in fortissimo). A questo punto l’opera si allontana da Shakespeare per ragioni drammaturgiche: per sottolineare l’espressione di sgomento tra Adagio e Stretta. Il modello dell’Adagio concertato è quello tipico: prima un’esplosione compatta, poi un episodio a cappella per soli e coro in tonalità minore, infine la “risposta” in tonalità maggiore. Anche qui, la seconda versione supera decisamente la prima: la scrittura vocale all’unisono è così intensa che il passaggio alla tonalità maggiore non produce l’effetto di una caduta di tensione. La Stretta finale è impostata come un’appendice dell’Adagio, in tutto ciò è impressionante l’oasi di quiete in cui Lady Macbeth, la sua dama, Macduff e Macbeth gridano due volte “Gran Dio!”, a cui risponde un feroce scoppio all’unisono dell’orchestra.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》8

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》8
All’inizio dell’atto secondo si ripresenta il semitono discendente orchestrato con uno squillo in fortissimo di fiati all’unisono; questa scena è un riassunto di quella shakespeariana in cui Verdi aggiunge delle notizie a favore del pubblico: Malcolm è accusato dell’assassinio di Duncano, per cui Macbeth teme solo l’avverarsi della profezia delle streghe. In Shakespeare questo è un monologo che fa parte della scena precedente. In Verdi Macbeth esce per andare a preparare l’assassinio di Banco e Lady canta l’aria con la quale avrebbe dovuto incitare il marito al suddetto assassinio; questo è un controsenso per cui, quando Verdi rilegge la partitura dopo diciotto anni, rendendosene conto, sostituisce quell’aria con la famosissima “La luce langue”, con la quale si avvicinò molto al linguaggio di Shakespeare, tanto che quest’aria risulta essere un’aquila tra le galline. La sezione finale “O voluttà del soglio” ha la funzione, se non la forma, di una Cabaletta e consiste in una serie di frasi impetuose.
La scena dell’assassinio di Banco non vede una caratterizzazione individuale dei tre assassini, che diventano l’intero coro maschile esecutore degli ordini reali. Verdi utilizza la versione del 1847 in cui è previsto un coro circospetto caratterizzato da: una figurazione dei timpani che apre ogni frase; accenti in contrattempo in apertura della seconda battuta e normali della quarta, che aggiungono qualcosa di piccante alla melodia; la ripresa è decorata nell’accompagnamento, fatto di un ostinato per viole cui si unisce il flauto nella coda. La Romanza di Banco è di forma convenzionale, con l’inizio in minore e la fine in maggiore; ha un’orchestrazione potente, con fagotti, tromboni e cimbasso. Dopo la cadenza finale non c’è pausa ma una pulsazione degli archi. Nel frattempo Banco lascia il palcoscenico e sulla parole “Oimè!...Fuggi, mio figlio!...” vi è un’ampia ondata orchestrale in cui il figlio attraversa il palcoscenico inseguito da un assassino. Si chiude il sipario su un bisbiglio di violoncelli e contrabbassi.
Un banchetto apre la scena quinta con musica insolente e volgare, ma efficace. In una scena festosa Macbeth chiede alla moglie di intonare un Brindisi, ripetuto dal coro, intervallato dalle trombe. Il dialogo tra Macbeth e gli assassini si svolge su un sottofondo dello stesso tema del brindisi suonato dall’oboe, dal clarinetto e da una contromelodia del fagotto. Viene poi ripresa la musica del banchetto, interrotta dalla prima allucinazione di Macbeth. La versione del 1847 ha un’intonazione musicale potente che lo è ancor di più nella versione del 1865, poiché è mutata la parte di Macbeth che ha una tessitura più bassa e declamatoria, con un accompagnamento arricchito da cromatismi, accordi estremi e modulazioni improvvise. I commenti del coro e della Lady sono identici in entrambe le versioni poiché Verdi le cuce insieme. Le scene delle allucinazioni sono armonicamente più sofisticate nella seconda versione e sarebbero state troppo azzardate nella prima. Subito dopo la Lady ripete il suo brindisi senza la coda poiché, sull’ultima nota del ritornello corale, inizia la seconda visione di Macbeth. In questa parte le revisioni di Verdi consistono soprattutto in una maggiore elaborazione delle parti interne. Banco scompare su una meravigliosa cadenza in Mi maggiore sotto un tremolo di violini in tutte e due le versioni. Da questo punto in poi la seconda versione è identica alla prima.
Il concertato finale è tipico: domina un unico cantante e il soprano è posto in primo piano. Il Largo conclusivo, a cui non segue una Stretta, è una delle più sublimi transfigurazioni liriche verdiane.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》9

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》9
Il terzo atto si apre come la prima scena del primo, con una musica costituita da una imitazione combinata di uragano e risata demoniaca. Dopo il Preludio si ripresenta il tema delle streghe che introduce motivo associato al sobbollire della caldaia presente in scena. I versi “Tre volte miagola la gatta in fregola” sono di Maffei (sono fedeli ai versi shakespeariani), caratterizzati negativamente dall’importantissimo “Tre” sviluppati solo come una semicroma di passaggio e ripetuti per ben tre volte rispetto alle due shakespeariani. Sembra non esserci molta corrispondenza tra testo e musica nel brano delle streghe. Seguono tre strofe di senari sdruccioli che corrispondono, in Shakespeare, ad una lunga catena di settenari a rima baciata e una serie di allitterazioni, assonanze e consonanze che scandiscono il ritmo ossessivo della danza. L’accelerazione vorticosa della danza infernale è impressa dalla forza ipnotica del linguaggio costruito, in entrambi i testi, sulle iterazioni, le rime, gli echi fonici. Vi è la costante presenza del vocativo “Tu” alternato, una volta per ogni quartina, da un altro monosillabo dell’imperativo “và”, che accompagnano l’accelerazione della danza sottolineando la preparazione dell’intruglio. Si può pensare che Verdi li abbia ritenuti elementi capaci di aumentare la “bizzarreria” del tutto. Sia in Shakespeare che in Verdi, l’impatto delle parole delle streghe è soprattutto fonico e non semantico. Verdi sembra preoccupato della qualità del suono, poiché la parola riceverà significato dalla musica. Di fatto la scena inizia con una potente immagine musicale, dovuta alla fusione del rombo dell’uragano con l’allegria delle streghe, ma va scemando man mano che le streghe vengono alla ribalta. Infatti la Stretta, “E voi, Spirti negri e candidi”, finisce in un tono di vivace banalità che non fu migliorata nemmeno nella versione parigina. I cori delle streghe hanno una struttura in due sequenze a specchio sottolineata anche dal decorso tonale.
Nella scena in cui appare Ecate il balletto, mimato e non danzato, è più sofisticato della musica che lo precede. Il Rondò di apertura inizia con un tema per cornetti e tromboni dallo stile decisamente “fantastico”. L’apparizione della dea è incorniciata da due frammenti di musica temporalesca; la musica in sé è ben costruita e piena di idee originali. Quando Ecate se né andata, i ballerini si uniscono in un rapido valzer orchestrato vividamente, che rende bene l’idea di danza macabra, grazie alle “diaboliche quinte vuote”.
Nella scena delle apparizioni il libretto è fedele a Shakespeare. Le tre apparizioni prevedono una testa coperta da un elmo, un fanciullo insanguinato ed un fanciullo incoronato con un arboscello in mano. Ma Macbeth vuole sapere anche se i figli di Banco diventeranno Re e le streghe gli mostrano una processione di otto re, ciascuno con le fattezze di Banco, seguiti dallo stesso Banco, che ridendo li addita a Macbeth. Questa scena nella versione parigina è profondamente rimaneggiata, soprattutto nell’orchestrazione che rende meglio drammaturgicamente: è più ricca e sostenuta da corni e tromboni. Il sottofondo delle profezie, cantate fuori scena da un baritono e due soprani, è di grande effetto ed eseguito da fagotti, trombe, tromboni e cimbasso, che paiono un organo a distanza. Quando Macbeth chiede di più alle streghe, nella tragedia shakespeariana c’è scritto di utilizzare oboi, mentre Verdi richiede un suono sotterraneo di cornamusa, intendendo la zampogna italiana. Il clima ultraterreno Verdi lo ottenne utilizzando due oboi, sei clarinetti, due fagotti e un controfagotto disposti sotto il palco. Nella versione francese modificò solo la melodia durante la processione, per renderla meno canzonetta popolare. Nella processione degli otto re vi sono frequenti cambi di tonalità, anche tra tonalità vicine, sempre più ravvicinati; vi è il cambiamento da Sol# a Mi minore che è particolarmente raggelante. Anche la frase culminante delle due versioni è differente e testimonia l’evoluzione dello stile di Verdi.
Dopo lo svenimento di Macbeth, vi è un “coro e ballabile” con un importante parte per arpa e, nella versione parigina, abbellì la cadenza finale con un flauto e un violino obbligati e una coda strumentale lunga.
Nella versione del 1847, a questo punto vi era una Cabaletta piuttosto impegnativa per il baritono, mentre nella versione francese, ritenendo fosse opportuno far riposare il baritono, Verdi eliminò l’aria e la sostituì con un duettino, in cui Macbeth racconta le profezie con un Recitativo accompagnato da un tremolo degli archi sul ponticello, mentre la Lady ne punteggia il racconto con poche parole. Quando Macbeth le annuncia la profezia che Banco avrebbe regnato dopo di lui, Lady prorompe con furia. Macbeth dichiara le sue intenzioni omicide e Lady gioisce e lo supporta; ha così inizio il Duetto. Qui l’opera diverge da Shakespeare: l’incitamento che Lady fa a Macbeth è ingiustificato dal punto di vista psicologico e drammaturgico ma giustificato in termini operistici. Nel Duetto i due personaggi si equilibrano. Questo è un tipo di Duetto “simile per voci diverse”, in cui ciascuna voce ripete la parte dell’altra ad altezza diversa: l’imitazione avviene sulle singole frasi che sono sempre più incastrate l’una nell’altra.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》10

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》10
L’atto si apre con un lamento corale che Verdi avrebbe voluto simile al “Va pensiero”, ma per non ripetersi ne venne fuori una melodia la cui struttura è simile a quella di “Una furtiva lagrima” di Donizetti e la sezione finale sembra essere uscita dalla Norma di Bellini. Poiché qui emerge più il Verdi risorgimentale che quello shakespeariano, egli stesso, nel 1865, sostituì il coro con una scena che è una capolavoro di originalità e una testimonianza di audacia armonica. Il tessuto corale sembra essere già quello del Requiem. Nella cadenza finale tutte le voci si muovono attraverso il tritono Sib - Mi naturale. Subito dopo vi è la Romanza di Macduff “Ah la paterna mano”, a cui segue un galop militare su cui entra in scena Malcolm alla testa delle truppe inglesi: egli ordina ai suoi uomini di nascondersi dietro un ramo tagliato e incoraggia Macduff a vendicarsi. Macduff replica negativamente con la frase “non l’avrò…di figli è privo”. È probabile che la riduzione dei versi shakespeariani a poche parole sia dovuta al ricordo di Verdi della perdita dei propri figli. La scena finisce con un Duetto e Coro in cui una melodia proposta all’unisono da Malcolm e Macduff viene ripetuta, frase per frase, dal coro, scena che è l’unica aggiunta parigina prima del coro strumentale.
La scena del sonnambulismo è il vertice del Macbeth fiorentino; qui Verdi utilizza un’orchestrazione selettiva, con sordina agli archi e con il clarinetto e il corno inglese obbligati e ciò resta anche nella versione parigina. Il monologo di Lady Macbeth, messo in ottonari dalla prosa di Shakespeare, è strutturato da Verdi in due strofe di diciotto battute l’una, un’altra più breve di nove battute e una coda di sedici. Verdi richiede di cantare sempre sottovoce con solo qualche frase a voce spiegata; nonostante la presenza dei Pertichini e le frasi spezzate della Lady, si ha comunque l’effetto di una melodia senza fine, senza interruzioni o ripetizioni. Gran parte del canto di Lady Macbeth è nel registro basso, ma la frase finale contiene un Reb acuto con l’indicazione un fil di voce.
La quinta scena vede Macbeth nella sala del castello e si apre con un frastuono orchestrale che descrive la battaglia che infuria. Macbeth sta meditando sul suo destino, ma i violini insinuano il suo crescente scoramento e conducono all’unico Adagio lirico del protagonista “Pietà, rispetto, amore”: le parole corrispondono a quelle di Shakespeare. L’aria sfrutta il suo semplice schema con un nuovo respiro. Prima della cadenza finale, il tema principale viene ripreso da legni acuti e violini divisi, intervento orchestrale che rende la partecipazione diretta del compositore al dolore del cantante. Subito dopo vi è l’ingresso in scena della dama che annuncia la morte della regina. Al monologo di Macbeth shakespeariano è sostituito solo un piccolo frammento che, nella versione del 1865, Verdi decide di musicare in maniera più degna. Infatti l’intero passo è cantato su una settima diminuita, con uno sforzando nel registro basso del clarinetto, che producono una sonorità vuota. L’ultima nota è interrotta dalle fanfare militari che entrano ad annunciare che la foresta di Birnam si muove. Macbeth si lancia a guidare i suoi in battaglia. La scena si trasforma nel luogo dello scontro.
A questo punto le due partiture divergono per l’ultima volta: nella versione del 1847 le fanfare lasciano il passo a un misero tema ripetuto in varie tonalità. Nel frattempo Malcolm ordina ai suoi di gettare i rami e attacca la carica; Macbeth e Macduff duellano e Macbeth cade colpito a morte: la scena della sua morte è in stile declamato e a ciascuna delle sue frasi rispondono tromboni e cimbasso. La scena è molto efficace, al punto che spesso la si inserisce anche nella versione parigina, contro l’esplicita volontà di Verdi. L’opera si chiude con un’unica frase di Macbeth “Vil corona io ti disprezzo” dopo cui Malcolm è salutato re dalla folla e cala il sipario. La versione del 1865 è più avvincente: dopo la morte di Macbeth donne e bambini entrano in scena sconvolti dal terrore, infine, quando torna il silenzio, un coro dietro le quinte grida “Vittoria”. La folla saluta Malcolm nuovo sovrano e l’atto finisce con un Inno di Vittoria affidato a tre gruppi corali: i Bardi, i soldati e le donne. È un coro trascinante, scritto nello stile del nuovo Verdi, aperto a influenze cosmopolite.

Il vecchio Macbeth fu allestito fino al 1860 in tutti i teatri d’opera italiani e stranieri. Solo nel 1900 la nuova versione fu apprezzata: la prima in Inghilterra fu del 1936. La versione del 1847 è una realizzazione sbalorditiva per le novità come la scena del sonnambulismo e delle apparizioni e per il plot insolito della combinazione dei protagonisti: non c’è il solito triangolo amoroso. Nella revisione del 1865 egli non ha solo conservato ma ha anche arricchito il “colorito” dell’originale e ciò è evidente nel prevalere della tonalità di Mi minore, nel numero di temi, nell’orchestrazione cupa basata sul semitono discendente e anche dalle lunghe linee discendenti de “La luce langue” e dell’assolo di Macbeth.
La critica considera il Macbeth un’opera – spartiacque nel percorso creativo verdiano e, viste le novità di linguaggio e la concezione unitaria dello spettacolo, è anche un unicum nel panorama operistico italiano di metà Ottocento. Quando, però, venne rappresentato a Firenze nel 1847, fu visto come un lavoro di importazione, perché vi si vedeva l’influenza del Grand Opéra di Meyerbeer, a causa del grande successo attenuto dall’opera Robert le diable nel 1831 che fonde teatro colto e popolare, sopranaturale e umano, elementi che la rendono simbolo del Romanticismo europeo. Gli innesti meyerbeeriani più appariscenti nel Macbeth, riguardano le scene demoniache: la sequenza delle streghe del terzo atto è modellata sul finale terzo del Robert, con l’invocazione degli spiriti infernali, il ballabile conclusivo e anche con il contesto scenico con la caverna e il temporale, il macchinismo e l’impiego, nella scena, delle apparizioni di una doppia orchestra. La scena dell’apparizione di Duncano sfrutta un’altra tecnica parigina: la pantomima. Anche la scena del brindisi si rifà ad una analoga che apre il Robert. I motivi che danno la tinta al Macbeth sono di ispirazione meyerbeeriana, in quanto entrambi affidano a nuclei motivici il compito di rappresentare le idee di fondo dell’opera. Nel Preludio e Introduzione sono contenuti, infatti, i nuclei del vocabolario “infernale” verdiano. Queste cellule motiviche, possono subire trasformazioni o coagularsi in pregnanti disegni ritmico melodici: riaffiorando di volta in volta funzionano come tessuto connettivo tra i singoli numeri e come struttura degli eventi drammatici.
Verdi utilizza due moduli formali: per le scene con le streghe e per quelle collettive, impiega la forma del tableau con i cori incornicianti o con la struttura a rondò; mentre per i numeri solistici conserva la forma multipartita all’italiana.
Le arie dei due protagonisti sono anch’esse distribuite secondo una logica simmetrica, in relazione alla direzionalità inversa del loro conflitto interiore: Lady da un’assoluta assenza di rimorso passerà ad un lacerante conflitto di coscienza, mentre Macbeth da quest’ultimo giungerà ad un completo inaridimento interiore.
Il Macbeth si configura come il punto di arrivo di un processo di assorbimento di moduli “europei” con cui Verdi tentò di innovare il suo teatro. Con il Macbeth Verdi mutua l’idea portante del teatro meyerbeeriano, cioè la visione organica dell’opera, inaugurando la nuova stagione creativa da cui nasceranno i suoi capolavori degli anni cinquanta.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》11

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》11
Romeo e Giulietta di Niccolò Antonio Zingarelli, su libretto di Giuseppe Maria Foppa, va in scena il 30 gennaio 1796 alla Scala. I personaggi sono:

    Everardo Cappellio, tenore.
    Giulietta, sua figlia, contralto.
    Romeo Montecchio, soprano castrato.
    Gilberto, amico delle due fazioni, soprano castrato.
    Matilde, confidente di Giulietta, soprano.
    Teobaldo, della fazione dei Cappellj, promesso sposo a Giulietta, tenore.

Foppa ridistribuisce le funzioni drammatiche rimaste vacanti, rifacendosi al dramma di Mercier per il nome della confidente di Giulietta, Matilde-Metilde, ma la sua funzione drammatica, è simile a quella del Pietro, servo di Giulietta, nel dramma di Da Porto. Il personaggio di Frate Lorenzo, Mercier lo trasforma in Benvoglio mentre Foppa in Gilberto ed ha la stessa funzione di amico delle due famiglie, intenzionato a riportare la pace tra di esse. In Foppa la cornice familiare che osteggia l’amore dei due è ridotta al solo personaggio di Everardo Cappellio e riunisce in Teobaldo due personaggi, Tebaldo (cugino di Giulietta) e il conte Paris di Lodrone (promesso sposo della giovane). Nella prefazione Foppa non fa alcun  riferimento alle fonti, scrive solo che è tratto dalle Storie di Verona di Girolamo Della Corte a cui si sarebbe ispirato anche Shakespeare e ad una francese di Ducis. Nel sunto della trama esposto nella suddetta prefazione, vi sono delle differenze rispetto a quello che avviene nel libretto: nella prima Giulietta si risveglia e, trovandosi accanto a Romeo già morto, muore di dolore; nel libretto Giulietta assiste all’agonia di Romeo e muore di dolore davanti al padre sopraggiunto. Prima di ciò, nel libretto, Gilberto era andato sulla tomba dei Cappellj per assistere al risveglio di Giulietta, ma vedendo il cadavere di Romeo capisce che il suo messo con il biglietto è giunto a Mantova troppo tardi. Giulietta tenta di strappargli la spada ma Gilberto chiama aiuto e accorrono Everardo e Matilde. Il librettista ha scelto questo finale contorto per consentire a Zingarelli di musicare almeno tre numeri: un assolo di Romeo disperato per la morte di Giulietta; un Duetto dei due amanti felici per un istante e poi subito afflitti per la morte di Romeo; un assolo di Giulietta disperata, ai quali spesso viene aggiunto un quarto numero conclusivo e a più voci in cui intervengono, addolorati e pentiti, gli altri personaggi. Foppa attualizza queste possibilità, dando all’Aria di Romeo un intervento del coro, assegnando la forma canonica al Duetto, inglobando l’Aria di Giulietta nel Terzetto e, pertanto, fornendo a Zingarelli un libretto che risponde impeccabilmente alle necessità dettate dai cantati. Il protagonista, il castrato Crescentini, ha pertanto quattro arie e quattro interventi in numeri a più voci. Coprotagonista è il contralto amoroso che ha due arie, tre esili ariosi e quattro interventi in numeri multipli. Antagonista è il tenore, con due arie e quattro interventi in numeri a più voci. Seguono, in posizione subalterna, i due secondi soprani e il secondo tenore. Anche in questo libretto Foppa dà grande rilievo ai Cori che incarnano la collettività e fungono da ideale cassa armonica per i sentimenti espressi dai personaggi. È inedita l’organizzazione della scena iniziale in cui, mentre i Cappellj si accingono a festeggiare le nozze di Giulietta e Teobaldo, la promessa sposa conosce Romeo e se ne innamora. Le forme chiuse e i moduli musicali più comuni si mescolano, evidenziando un segmento drammatico in cui il librettista e il compositore preferiscono prestare maggiore attenzione alla mimesi dell’azione piuttosto che all’effusione lirica.

Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai su libretto di Felice Romani, va in scena il 31 ottobre 1825 al Teatro alla Canobbiana di Milano. Nel solito avvertimento Romani ripropone la sua ipotesi secondo cui, nelle opere per musica, giova moltissimo che il soggetto sia noto ed elude ogni possibile paragone con il libretto di Foppa, dichiarando che l’insidia all’originalità del suo lavoro non proviene dal testo del dramma ma dal ricordo ancora vivo della musica di Zingarelli. I personaggi sono:

    Capellio, padre di Giulietta, tenore.
    Giulietta, soprano.
    Romeo, capo dei Montecchi, mezzosoprano.
    Adele, madre di Giulietta, soprano.
    Tebaldo, partigiano dei Capelletti, destinato sposo a Giulietta, baritono.
    Lorenzo, medico e familiare di Capellio, basso.

Anche qui le forze drammatiche in campo sono le stesse. Differente è il personaggio di Lorenzo, che non è un frate, come nelle fonti, ma un medico e ha la stessa funzione drammatica del Gilberto di Foppa. Qui la madre di Giulietta si chiama Adele e ha funzione drammatica simile a quella della Matilde di Foppa. Infine il personaggio di Romeo viene definito capo dei Montecchi, attribuendogli il potere necessario a guidare un’intera fazione cittadina e facendolo uscire dalla dimensione di ragazzino innamorato com’era nelle altre fonti e affidandogli anche la funzione drammatica che Montecchio aveva nelle fonti. Questa virilizzazione e politicizzazione di Romeo e dell’intera trama, è uno spunto che probabilmente Romani ha tratto dal testo di Ducis.
Anche qui i personaggi sono legati nel regolare triangolo canoro, mezzosoprano-soprano-tenore: Romeo, Giulietta, Capellio. Rispetto all’opera di Zingarelli, in cui tutti i personaggi erano dotati di almeno un’aria, nel secondo le arie sono distribuite secondo una precisa logica gerarchica. Il trentennio che separa le opere l’una dall’altra, ha prodotto una dilatazione dei numeri chiusi, un’intensificazione del dialogo tra le voci, una dinamizzazione delle parentesi liriche, l’emancipazione dei cori dalla mera funzione di cornice e la loro acquisizione di autonomia drammatica.
Il secondo atto inizia con Adele e le sue ancelle che osservano da lontano la battaglia. Giunge un drappello di uomini ad annunciare la morte di Tebaldo per mano di Romeo e Capellio, ripudiata Giulietta, la condanna. Giulietta cede alla proposta del filtro per scongiurare il chiostro.
Nell’introduzione Romani dichiara che, non potendo cambiare il Finale, ha eliminato o almeno modificato, nelle ultime scene, ogni concetto che potesse ricordare le scene corrispondenti del vecchio libretto. Romani utilizza parte del materiale lessicale e tematico del libretto di Foppa, lavorando in termini di disposizio ed elocutio per dare al dolore di Romeo una rappresentazione più intensa e alla sua morte una descrizione più verosimile e minuziosa, e alla disperazione di Giulietta lo stupore di chi scopre di essere vittima di un disegno crudele. Nel Finale il Capellio di Romani sembra ammutolito dal dolore della figlia e dai suoi rimorsi: le tradizionali grida moralistiche di “Tutti”, sono sostituite dal lamento misto al terrore del padre colpevole.

Sul finire del 1829, l’impresario Lanari chiede a Vincenzo Bellini di musicare un’opera e lui decide di rimettere in musica il libretto di Giulietta e Romeo di Felice Romani. Romani, del resto, non essendo ancora stato pagato per un libretto composto per Vaccai, ritiene di poter considerare ancora suo il libretto di Giulietta e Romeo e quindi acconsente. Avendo poco tempo a disposizione, l’opera andrà in scena il 16 marzo 1830, il poeta modifica solo in parte il vecchio libretto e Bellini ricicla molti brani della partitura della recente e sfortunata Zaira. Il libretto, suddiviso in quattro parti da rappresentarsi a blocchi di due, è stato sensibilmente accorciato: i tagli riguardano soprattutto le sezioni dinamiche, i Recitativi, mentre le sezioni statiche, pure ridotte nel numero, sono state ampliate ed amplificate. Tra la seconda e la terza parte del dramma cala il sipario, sull’imminente combattimento tra Capuleti e Montecchi. La terza parte ha inizio con Giulietta che attende notizie dell’esito del combattimento. Arriva Lorenzo e la informa che Romeo è stato salvato da Ezzelino e che lei sarà condotta al castello di Tebaldo per sposarlo. Qui Giulietta prende il filtro non per scongiurare il chiostro ma per evitare le nozze con Tebaldo. Dopo aver bevuto il filtro, creduta morta, la portano in corteo funebre. Romeo, che ha incontrato Tebaldo e lo sta sfidando a duello, vede passare il corteo funebre. Disperato chiede a Tebaldo di ucciderlo; Tebaldo si rifiuta e i due si separano. Come si può notare la materia drammatica è stata ridistribuita e modificata; i personaggi sono:

    Capellio, principale fra i Capelletti e padre di Giulietta, basso.
    Giulietta, amante di Romeo, soprano.
    Romeo, capo dei Montecchi, mezzosoprano.
    Tebaldo, partigiano dei Capelletti destinato sposo a Giulietta, tenore.
    Lorenzo, medico e familiare di Capellio, basso.

Le 22 scene in cui sono suddivise le quattro parti, contengono 16 numeri (in Vaccai erano 21). Anche qui l’impalcatura drammatico musicale è la figura triangolare in cui, però, l’antagonista del soprano e del mezzosoprano amorosi non è più il padre, ma il promesso sposo Tebaldo (primo esempio di tenore amoroso, poiché qui a Tebaldo è stato dato un nuovo rilievo). Il Finale è simile dal punto di vista drammatico a quello di Vaccai, anche se la parte iniziale con l’aria di Giulietta è stata integralmente rimossa. Romani, pur lasciando inalterata la soluzione delle morti semisovrapposte del Finale, riduce l’estensione dell’epilogo composto per Vaccai.

Zingarelli 1796
Foppa    ARIA
Romeo    DUETTO
Romeo-Giulietta    TERZETTO
Matilde-Everardo-Giulietta
Vaccai 1825
Romani    ARIA
Romeo    DUETTO
Giulietta-Romeo    ARIA
Giulietta
Bellini 1830
Romani    ARIA
Romeo    DUETTO
Giulietta-Romeo    

Eliminato ogni altro numero chiuso, il Duetto fra Giulietta e Romeo, all’unisono, è chiamato a chiudere il dramma. Seguono tre versi, affidati a Capellio e Lorenzo, trascurabili dal punto di vista canoro.
Nonostante la volontà di Bellini di andare aldilà delle norme della scuola e di Romani di liberare il libretto del 1830 da ogni raffronto con quello del 1825, dal 1832 in poi prenderà piede una pratica interpolativa che avrà seguito per tutto l’800: in occasione di una recita al Teatro Comunale di Bologna, il mezzosoprano Maria Malibran, sostituì il finale di Bellini con quello di Vaccai.
L’opera di Bellini ebbe un enorme successo in Italia e anche all’estero e in conseguenza di ciò, fin dal 1830, vennero pubblicate nuove versioni italiane del Romeo and Juliet di Shakespeare, del Giulietta e Romeo di da Porto e altri saggi inerenti.
Persino, nel 1833, tra il primo e il secondo atto dell’opera L’imboscata di Giuseppe Weigl, andò in scena Giulietta e Romeo, ballo tragico pantomimico in sei atti, composto e diretto dal Signor Ferdinando Gioia.
Il 24 novembre 1839, al Conservatoire di Parigi venne eseguita la Sinfonia drammatica Romeo et Juliette composta da Luise-Hector Berlioz per orchestra, soli e coro su testo di Èmile Deschamps, che compose dopo aver assistito ad una rappresentazione dei Capuleti e Montecchi di Bellini al Teatro alla Pergola di Firenze ed esserne rimasto fortemente deluso.
Il musicista maceratese Filippo Marchetti, su libretto di Carlo Marcelliano Marcello, scrive una riduzione del Romeo and Juliet di Shakespeare, rappresentata il 25 ottobre 1865 al Théâtre Lyrique di Parigi; due anni dopo l’opera approda al Teatro Carcano di Milano. Mentre Foppa e Romani hanno evitato il raffronto con il poema di Shakespeare, prendendo a modello i rifacimenti sette-ottocenteschi, Marcello tenta di fotografare l’immenso quadro dipinto da Shakespeare nella sua tragedia e di riprodurlo riducendone le proporzioni, cercando di salvaguardare la complessità drammatica del modello. Nonostante il tentativo di Marcelllo e Marchetti di essere fedeli a Shakespeare, ignorando l’esempio dei poeti e compositori precedenti, proprio nel Finale si avvicinano alla tradizione melodrammatica italiana. Influenzata da una certa eredità verdiana e forse anche dal Grand Opera, la tipica struttura triangolare è qui sostituita da un figura quadrandolare: Romeo-Giulietta-Paride-Lorenzo (tenore, soprano, baritono e basso), relegando gli altri personaggi ad una condizione di evidente subalternità, poiché essi prendono parte solo a numeri a più voci. Il Finale di Marcello e Marchetti ha una struttura drammatica e musicale quasi identica a quella del finale di Romani e Bellini. È solo leggermente più breve (il cantabile di Romeo è di una sola quartina) e si concentra di più sulle figure dei due protagonisti, infatti l’opera si chiude col loro Duetto.
Romeo et Juliette di Charles Gounod andò in scena alla Scala contemporaneamente all’omonima opera di Marchetti. Anche Gounod adotta il Finale lungo.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》12

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》12
Il libretto di Francesco Berio di Salsa è uno dei libretti più brutti con cui Rossini si sia trovato a lavorare. In esso non traspare neppure il ricordo di Shakespeare: manca la figura chiave di Cassio e la vicenda è ridotta ad una banale passione da salotto, un triangolo amoroso con un pretendente alla mano di Desdemona (Rodrigo) che fa ingelosire Otello. Il fazzoletto viene sostituito da un biglietto galante e da una ciocca di capelli, Otello pugnala e non soffoca la moglie e soprattutto manca la perfidia di Jago che avvolge Otello e Desdemona. Si potrebbe pensare che Berio si sia rifatto alla novella del Cinzio Giraldi, ma nemmeno questa è una giustificazione alla carenza drammaturgica della sua opera, in quanto nel Giraldi è pur sempre presente quella tensione di menzogne e calunnie che in Berio neanche appare; tutt’al più può essersi ispirato a Ducis, nella cui opera Hédelmone viene costretta a firmare una dichiarazione in cui accetta di sposare, controvoglia, Lorédan; il ruolo di Jago è rappresentato da Pézare che trova sul corpo di Lorédan, da lui ucciso, due compromettenti indizi datigli dalla donna, scatenando il dramma.
L’opera di Rossini fu rappresentata il 4 dicembre 1816 al Teatro del Fondo, in attesa che il San Carlo, distrutto da un incendio, fosse ricostruito. Anche quest’opera nacque all’insegna della fretta, al punto che l’overture, è un collage di precedenti motivi e l’andante iniziale è già presente nell’overture sia del Turco che del Sigismondo: l’unica differenza è costituita dallo strumento che esegue la melodia dell’andate. Il carattere poco impegnativo dell’overture non offre l’idea delle aspre vicende a cui si assisterà nell’opera: Stendhal faceva notare che la Sinfonia è animata dallo spirito tragico del dramma, mentre la Righetti-Giorgi controbatte dicendo che tutte le Sinfonie di Rossini trasmettono vivacità e vaghezza, ma che se molti pensano che le Sinfonie debbano essere il riassunto dell’opera, altri pensano che non debbano necessariamente avere a che fare con il contenuto dell’opera stessa. L’Otello è uno dei primi drammi italiani e rossiniani a contraddire la classica necessità del lieto fine. Se nell’opera buffa, l’accavallarsi di motivi leggeri nell’overture, rispecchia il susseguirsi di situazioni buffe della vicenda, nell’opera seria la discordanza dell’overture col soggetto veniva avvertita come una stonatura, sintomo del clima di transizione dall’astrattismo illuminista al melodramma ottocentesco, che porterà gradualmente fino al Guglielmo Tell. Anche riguardo alle voci Rossini, complice l’imperizia del Berio, non evitò palesi squilibri. Otello, Jago e Rodrigo sono tutti tenori, quasi che fossero tre pretendenti alla mano di Desdemona e la loro uniformità vocale potrebbe rappresentare l’impossibilità di tutti e tre a stabilire un vero rapporto positivo con la ragazza. Anche Jago non è caratterizzato nella voce come “genio del male”, artefice dell’azione e, personaggi minori come il doge, il gondoliere e Lucio sono anch’essi tenori: Lucio è una figura del tutto inutile, il cui ruolo avrebbe potuto essere ricoperto dalla stessa Emilia. L’unico basso è Brabantio, il quale canta pochissimo e solo nei concertati. Desdemona, unica effettiva protagonista del dramma è l’unico soprano, mentre Emilia è un mezzosoprano. Sia l’Otello di Verdi che quello di Rossini, escludono l’antefatto shakespeariano e iniziano dal momento in cui Otello torna vincitore in patria, ma in Berio questo porterà ad alcune incongruenze. Un coro apre la scena di Cipro festante cui segue una marcia che crea un clima militaresco e trionfale: la marcia però, accompagnata dai legni, non rende a pieno il personaggio trionfale di Otello. Otello intona una Cavatina da tenorino leggero che non contribuisce a dargli la credibilità di un personaggio che dovrà uccidere e uccidersi, ma quando l’Aria passa dal vivace all’Andante in 6/8 ci rivela l’aspetto di Otello innamorato. Del resto quasi tutti i personaggi maschili rossiniani sono contralti, a testimoniare che lo sguardo di Rossini era ancora rivolto al passato. La Cavatina si trasforma in una specie di Concertato che coinvolge il coro e Jago.
Questa scena, che avrebbe dato occasione ad un autore romantico di esprimere il massimo visto che, sotto il tripudio generale, serpeggia il livore di Jago, in realtà, non viene sfruttata al massimo da Rossini. Egli, infatti non affida ad Otello un’importante Aria di Sortita, ma lo coinvolge nell’intreccio generale senza, del resto, affidargli alcuna Aria tutta per sé, in tutta l’opera.  La scena che segue è completamente inutile ai fini del dramma. Non si capisce come mai Berio abbia complicato inutilmente la situazione, costruendo una serie di momenti drammatici ingiustificati e fini a se stessi.
Il Duetto Jago-Rodrigo è un canto di amicizia sia perché Berio offre un profilo di Jago incerto, sia perché Rossini, per la sua naturale espansività, non riesce, musicalmente, a descrivere la cattiveria: probabilmente non si era neppure posto il problema di rappresentare Jago come uno spirito del male. A questo punto Jago estrae un foglio di cui nessuno conosce l’esistenza: è un biglietto scritto da Desdemona per Otello. Questa è un falla del libretto di Berio perché crea una inutile suspance che cade in un clichè della letteratura librettistica tipico dell’opera buffa e dei suoi malintesi e, pertanto, la trama tragica ne risulta indebolita. Qui Jago farà molto poco: la costruzione di Berio non si basa sulle trame da doppio gioco di Jago ma solo su degli equivoci e tutti si convincono di esser stati ingannati da Desdemona. Quindi, mentre lo Jago shakespeariano è padrone degli eventi da lui provocati, lo Jago di Berio non fa nulla se non coltivare la gelosia di Otello, facendogli credere che il biglietto sia indirizzato a Rodrigo e non a lui.
Dopo il fraterno canto per terze dei due, esordisce Desdemona in un Duetto con la sua confidente: anche lei non ha una possente aria di sortita. Questo è un atteggiamento coerente con il carattere della Desdemona rossiniana che fin dall’inizio risulta dagli affanni oppressa: finora era preoccupata per la sorte di Otello in battaglia, ora teme che Otello interpreti male il biglietto e il suo destinatario. Nell’Introduzione orchestrale spicca il nobile canto del corno che vuole conferire a Desdemona una nobile signorilità, intoccabile da qualsiasi calunnia. La scelta del corno come strumento caratteristico di Desdemona può essere discutibile, anche se il corno del 1816 era meno pieno e pastoso di quello odierno, ma poiché Rossini lo usa anche in Semiramide e ne La donna del lago, si può pensare che esso sia stato utilizzato in funzione della Colbran.
Una novità è quella dell’eliminazione dei Recitativi secchi, pratica che doveva ampliare e sostenere le voci e dare spazio all’orchestra. Il Recitativo di Desdemona, infatti, è sostenuto da un tremolo che sottolinea il racconto del biglietto. Il brano “Vorrei che il tuo pensiero” mescola Aria e Recitativo, a passaggi declamati che si alternano a passaggi melodici a seconda delle necessità delle parole, al punto che risulta difficile definire dove ha inizio l’Aria. Il tutto rende bene l’esitazione della donna a concedersi alla speranza.
Il fatto che il personaggio di Desdemona esordisca con un duettino che mette in evidenza la sua tenerezza, si scontrò con le ambizioni delle cantanti abituate all’ingresso  spettacolare della prima donna, tanto che per tutto l’800, tale duettino, fu spesso sostituito o elaborato per offrire alla cantante e al pubblico il pezzo d’attrazione. Per esempio, nella rappresentazione del 1834 alla Scala, venne soppresso il duetto Jago-Rodrigo per consentire alla cantante  di entrare alla grande, cantare l’aria e solo dopo intavolare il dialogo con Emilia. Queste variazioni ed interpolazioni rivelano, involontariamente, che il personaggio di Desdemona sembra mancare della componente psicologica dell’amore quasi che la donna, capace di morire per amore, non ci appaia realmente innamorata e queste pagine aggiunte sembrano voler colmare questa lacuna, poiché danno alla cantante l’occasione di dimostrare la propria abilità canora, ma anche la volontà di amare quindi, il Duetto con Emilia, fa emergere l’animo turbato di Desdemona nel generale tripudio. Alla fine dell’atto, però, il dolore della donna viene fagocitato dal cerimoniale pubblico. La scena finale, dopo averci presentato anche Jago come pretendente rifiutato di Desdemona, desideroso di vendetta, si apre con un Recitativo di Elmiro che espone il suo odio per Otello che sembra voler conquistare il potere disonestamente anche se all’inizio, Berio, gli ha fatto dichiarare che il suo intento, è solo quello di consolidare il suo rapporto con Desdemona: per questo, la figura di Jago è indebolita.
Il coro Santo imen, dovrebbe essere un coro nuziale, ma risulta quasi un coro marziale che ha già qualcosa di Donizetti e di Verdi, in quanto Rossini vuole sottolineare l’atmosfera  sfolgorante per creare un ulteriore contrasto con la figura smarrita e spaventata di Desdemona.
Qui Elmiro, per rincuorare sua figlia, canta un’Aria belcantistica che però sfocia in un  Terzetto che mette in evidenza l’assenza del ruolo di primo basso. In questo clima, Desdemona dovrebbe essere il centro verso cui convergono le forze emotive di tutti i personaggi, ma ciò non accade: la Desdemona di Berio è un essere passivo in perenne prostrazione, sempre avvolta nel dolore e nella sofferenza, talmente inerte da non sembrare nemmeno innamorata. Nell’Otello rossiniano, l’amore non è in re, ma post rem. La Desdemona della Colbran doveva essere un personaggio commovente, pertanto, la sua rovina non è l’astuzia di Jago, ma l’inerzia della sua stessa personalità, la sua incapacità di affermare il suo amore. Desdemona sembra essere costruita sulla falsa riga patetica e commovente della Nina o della Cecchina di Paisiello, anche se la novità sta nel fatto che tale malinconica delicatezza è già un aderire ad una umanità borghese e ottocentesca che prelude a Bellini.
Segue un Terzetto dolce in cui Elmiro e Rodrigo cercano di convincere Desdemona  a tornare sulla sua decisione, me lei si limita a confermare il suo dolore.
Poi, un faceto tema di marcia, annuncia l’arrivo di Otello. Tutta la scena è drammaticamente risibile, visto che Otello si ingelosisce solo alla vista di Desdemona vicino a Rodrigo. La sua ira si scatena come se l’avesse colta ad un incontro segreto con l’amante. Forse Berio voleva dare alla scena l’aspetto di una cerimonia nuziale interrotta, ma la scena non rende. Qui Berio fa un po’ di confusione e crea un’atmosfera di paura all’ingresso di Otello, evidenziata anche da un cambio di modo da Re maggiore a Re minore (che, del resto, non rende abbastanza a causa del tema di marcia appena lasciato) che non si giustifica dato che ancora nessuno sa che Desdemona e Otello si sono sposati, costringendo Rossini ad adeguare la sua musica a situazioni assurde. In alcune edizioni dell’opera, infatti, la scena in cui Rodrigo apprende del matrimonio, è stata soppressa per evitare un’inutile ripetizione di momenti scenici uguali. Otello ammonisce Desdemona, in modo da accentuare il suo essere vittima, e il padre le lancia la sua “maledizione” sul solito accordo di settima diminuita. La situazione in cui un padre, in contrasto con un figlio, ne causa la rovina e la morte, è un topos già romantico, come anche quello della maledizione. Subito dopo vi è un’altra oasi di calma con un Quintetto e Coro caratterizzato quasi come una marcia funebre. Nei momenti lirici Rossini si rivela davvero un preromantico anche se, a causa della tonalità maggiore, ancora è lontano dai severi concertati romantici, tant’è vero che chiude in Do maggiore per dare sfogo all’ira di Rodrigo, di Otello e di Elmiro.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》13

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》13
All’apertura del secondo atto, vi è la scena che vede Desdemona ancora a colloquio con Rodrigo: è qui che lei gli confida di essersi sposata con Otello. Il Recitativo si trasforma in Arioso e persino in Aria. Come già detto, questa scena spesso è stata tagliata. Una volta, nel ’35, fu sostituita da un’Aria di Elmiro che altrimenti avrebbe cantato solo nei concertati.
Subito dopo Desdemona va da Otello; lo raggiunge nel giardino dove sta sopraggiungendo anche Jago. La musica di questa scena accompagna l’entrata di Jago senza lasciar presagire le menzogne che ora egli dirà. Qui Jago non parla con quella falsa reticenza che contraddistingue il suo personaggio sia in Shakespeare che nel libretto di Boito, ma si esprime con atteggiamenti addirittura esagerati, da far capire apertamente che sta mentendo e recitando. Otello comunque cade nella trappola, senza che il librettista si sia preoccupato di far capire come, il foglietto incriminato, sia caduto nelle mani di Jago.
La scena tra Otello e Jago prevede anch’essa un crescendo fatto di un Recitativo che si trasforma in Arioso e poi in Aria, con le voci che si sovrappongono, con l’orchestra che le collega. Poi nell’Aria le due voci si appaiano sulla stessa melodia, pur esprimendo emozioni differenti. Tramite accordi si giunge al Più Allegro la cui melodia, simile al Sì vendetta rigolettiano, è già vicina al gusto delle passioni romantiche.
Arriva Rodrigo con il quale nasce un  nuovo Duetto che, in alcune edizioni, è separato dal precedente tramite un intervento di Emilia. Sembra che Berio abbia solo bisogno di far entrare Rodrigo in scena, pertanto non si cura del modo in cui lo fa sortire e il motivo per cui si rivolge a Otello è solo una scusa: gli offre amicizia in cambio del suo cedergli Desdemona (in Rodrigo sono fusi sia Cassio che Roderigo). In pratica è un nuovo duello per Otello e qui, anche la musica asseconda ciò che accade.
Con l’arrivo di Desdemona, il duo diventa un trio: si apre un momento di tensione; qui Desdemona, nell’Aria “Perché da te mi scacci”, sembra ergersi a protagonista e dominare con la fierezza della sua innocenza i due rivali. Anche nella Stretta ricompare il tipico finale da opera buffa. Desdemona non riesce a far desistere i rivali e viene scacciata. Mentre i due se ne vanno Desdemona sviene. Sembrerebbe che i due siano andati a sfidarsi, ma in realtà, nel terzo atto, scopriremo che Rodrigo è stato ucciso da Jago. Anche questa è un’incongruenza di Berio che, volendo di tanto in tanto rifarsi fedelmente a Shakespeare, cerca di mantenere il parallelismo.

Desdemona rinviene tra le braccia di Emilia e canta un’Aria di disperazione, un Allegro tipico dell’opera seria che mostra per una volta l’amore per Otello e fa voto di sacrificarsi per lui. In questo punto il libretto si dilunga, senza raccontare nulla di nuovo, e offre a Rossini la possibilità di creare un episodio di intensità drammatica ampia. Quando Elmiro torna e rimprovera Desdemona, ella canta l’aria “Se il padre m’abbandona, da chi sperar pietà?”, in cui conferma ancora una volta il suo flebile carattere di vittima.
Nel terzo atto, quindi, il dramma ha il suo compimento: è presentato da un’Introduzione orchestrale superlativa che in alcune edizioni dell’opera, per esempio nel 1826 al Regio di Torino, è stata eliminata, riducendo l’opera solo a due atti. Dopo l’Introduzione appare Desdemona insieme ad Emilia mentre si ode il canto di un gondoliere sui versi dell’episodio dantesco di Paolo e Francesca, che Rossini è spinto ad utilizzare quasi fosse un’esigenza dettata da sintomi preromantici della rivalutazione critica dantesca del momento. Si è portati ad accomunare Otello e Desdemona a Paolo e Francesca, in quanto entrambi gli amori sono impostati sulla gelosia e ad essi sembra mancare una precisa componente per realizzarsi: entrambi sono amori sempre a livello latente, incapaci di fondere ed affiatare i due amanti. Se il gondoliere canta “nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”, nell’Otello, in realtà, non c’è stato nessun tempo felice. Commossa da questo canto Desdemona intona la celebre Romanza del salice in cui invoca l’amica africana scomparsa. Berio adotta il nome di Isaura già utilizzato da Ducis che, del resto, si prestava a qualche petrarchesca assonanza (Isaura-aura). Questa melodia ha per sottofondo i preannunci di un temporale, che in Rossini è usuale come preparazione allo scioglimento dell’intreccio: in Otello esso si fonde con la svolta conclusiva. Alla fine dell’aria ricompaiono alcuni ritmi dell’introduzione dell’atto, a fare da ponte alla terza preziosità melodica di quest’atto, la Cavatina per la preghiera “Deh calma o ciel”.
Il Finale si apre con il ritorno di Otello in segreto, accompagnato da una musica che non ha nulla di drammatico e tenebroso e non sembra annunciare l’arrivo di un assassino, pur creando un clima di tensione e di aspettativa. Otello si sofferma in un soliloquio recitato molto importante, poiché getta su di lui una luce d’umanità: egli è preso da scrupoli e spegne la fiaccola che ha con sé, simbolo positivo. Con questa trovata Berio si riscatta un po’, poiché introduce la dicotomia luce-tenebre e l’invocazione alla notte, non presenti in Shakespeare. Man mano che si avvicina a Desdemona, ed entra in dialogo con lei, il Recitativo di Otello si trasforma in Aria e prepara il vero e proprio sfogo di Desdemona che, finalmente, si rivela sicura di sé e decisa. Qui Desdemona, tra i lampi del temporale, ci appare sotto una luce nuova e le sue esclamazioni “vibralo, vibralo”, sono dei veri squilli di tromba a mo di sfida. Quando lo scontro si fa ancor più drammatico, scoppia il vero temporale e la musica di Rossini tocca il massimo livello di tutta l’opera. Qui è percepibile un richiamo alla “Calunnia” quasi che si voglia sottolineare che Desdemona è vittima di una calunnia.  L’Agitato alle parole “Notte per me funesta” è il vero acme del terzo atto, poiché è un passo di esaltazione già romantica: il temporale non è espresso solo dall’orchestra ma anche dalle voci, che Rossini fa gridare romanticamente trattandole come strumenti d’azione. Alla fine di questo agitato in Re minore, Desdemona muore su un “Ahimè” in Re maggiore, che conferisce una funzione liberatrice e redentrice alla morte. Il temporale si acqueta. Sopraggiungono tutti gli altri personaggi e il coro a riscattare Desdemona. In alcune rappresentazioni si era ricorsi alla soppressione della figura di Lucio e ad annunciare la riappacificazione generale arriva Rodrigo, che scopriamo non essere morto. Otello, appresa la verità, si trafigge e l’opera si chiude su una drammatica esclamazione del coro. Questo Finale è pregevole proprio per l’asciutta concisione e la rinuncia alla solita aria di bravura, per rendere incisiva la tragicità. Nelle versioni del 1855 e del 1865 per il Regio di Torino, l’opera ebbe un altro finale: dopo la scena del “Notte per me funesta”, Otello contemplava la consorte uccisa e poi si trafiggeva senza attendere l’arrivo degli altri personaggi.

L’Otello di Rossini, composto nel 1816, anno in cui viene fatto iniziare il nostro Romanticismo letterario, si trova, quindi, a cavallo di due epoche storiche: pur non essendo Rossini un Romantico, molte scene, molti passaggi, lo mostrano come un chiaro anticipatore. Ormai l’opera tende a divenire un unicum scindibile, in cui non è più possibile operare l’intercambiabilità delle parti; non è più possibile sostituire a piacimento il finale: il lavoro deve essere frutto di una stessa colata compositiva. Nell’Otello è presente una parvenza di leitmotiv che tenta di dare all’opera una coesione. L’Otello, infatti, non è stato utilizzato per la creazione di quei “pasticci” di tipo settecentesco. Le scene, per quanto ancora ripartite in arie, duetti, recitativi ecc., tendono già ad agglomerarsi in sistemi più complessi: un’aria si trasforma in concertato, il recitativo da arioso declamato in aria. La musica dell’Otello ha un che di ambiguo proprio perché creata in un’epoca di transizione. L’ambivalenza dell’opera dovuta, agli stilemi dell’opera buffa, impediva un giudizio definitivo ed immediato. I primi due atti, che mancano di affermative arie solistiche, cosa che non permette a nessun personaggio di affermarsi, si contrappongono al breve terzo atto, molto intenso.
La fama dell’Otello poggiò a lungo solo sulla bellezza del terzo atto, che in fondo ebbe grande notorietà proprio grazie alla Romanza del salice, sia perché andava incontro alla moda dei salotti di allora, sia perché possedeva una nuova espressività di ballata romantica. Pur riconoscendo l’indubbia superiorità del terzo atto, sono da apprezzare alcuni brani degli altri due e persino il carattere svenevole di Desdemona non è quello di stampo arcadico-metastasiano di Nina e Cecchina, ma è già di clima preromantico.
Essendo l’Otello di Rossini un’opera di transizione, per non turbare eccessivamente il pubblico italiano, spesso si ricorreva alla risoluzione di “sbiancare Otello”.
L’Otello quindi è il lavoro che, con la sua ambivalenza, facilita la svolta dell’opera seria ai primi dell’Ottocento, preparando il terreno a Bellini, Donizetti e Verdi. L’eredità classica si manifesta con l’uso di temi musicali molto semplici e apparentemente poco partecipi del dramma che non è solo indice di incapacità da parte del musicista di adeguarsi alla serietà drammatica di alcune scene. Persino Verdi, il primo Verdi, userà temi apparentemente poco pertinenti con il tragico di alcune situazioni. Il motivo è nel desiderio di superare la drammaticità e non farsi coinvolgere da essa; i temi spingono a trovare il lato positivo della situazione. Rossini non dipinge la cattiveria perché dotato di temperamento positivo, anche se ciò va a scapito del dramma. Questo atteggiamento spiega la presenza copiosa di modi maggiori, anche dove sarebbe stato più opportuno utilizzare modi minori. In pratica la sua tragicità non è mai cupa e cieca, ma lascia una via d’uscita. I temi buffi non sono dettati dal desiderio di ironizzare, né sono conseguenza di superficialità. Pertanto il fatto che la sua musica non sempre si adatta alle sfumature dell’azione, è indice che Rossini ragiona ancora in modo classico: per lui la musica “non è un’arte imitatrice”.
Nell’Otello il dramma si fa veramente musica in quanto non è più paludato in scene immobili: l’orchestra aumenta il suo spessore e diviene anch’essa un personaggio ben caratterizzato. Il canto non è più sovrano assoluto: mancano infatti arie prettamente virtuosistiche; nella celebre Romanza del salice gli abbellimenti si riducono a qualche catena di gruppetti.
Le maggiori critiche ricevute dall’Otello riguardano la scarsa fedeltà a Shakespeare.
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《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》14

《威尔第的歌剧与莎士比亚的戏剧》14
L’Otello di Verdi andò in scena alla Scala il 5 febbraio 1887 e il pubblico restò impressionato dalla lunga Introduzione in cui l’orchestra descrive la tempesta con effetti modernissimi, per esempio il pedale d’organo dissonante Do-Do#-Re, i cui battimenti anticipano certi effetti di dissociazione timbrica tipici del Wozzeck di Berg. Le terzine, i cromatismi, la violenza timbrica dei fiati e delle percussioni, descrivono la natura facendone un “personaggio attivo”, ben lontano dal temporale antropomorfico del Rigoletto. Sembra evidente che l’uragano iniziale sia il presagio della sventura che sta per abbattersi su Otello. Questa scena iniziale della tempesta, che ricorre alle risorse del suono ai confini col rumore, è il manifesto del modo in cui va inteso l’Otello: la manifestazione più alta e più matura dell’espressionismo verdiano. Per esprimere la violenza estrema dell’espressione, Verdi non ricorre alla melodia o al contrappunto ma alla dinamica sonora del timbro, del ritmo e dell’armonia: la musica diventa rumore e grido.
La scena della tempesta non è la sola manifestazione di espressionismo strumentale del primo atto. Nel dialogo tra Jago e Roderigo, nell’orchestra si percepiscono la perversità e la malizia. Altre manifestazioni di espressionismo sono nel secondo e nel terzo atto, mentre nel quarto vi è più presenza di tradizionali risorse compositive.
Nell’Otello l’orchestra è potenziata ma resta sempre subordinata alla voce. Qui si affermava un nuovo modo di canto: l’ascoltatore doveva rinunciare ai piaceri dell’Aria e della Cabaletta. Dopo la prima alcuni giornali sottolinearono le novità dei recitativi che risultavano essere attrattiva per il pubblico ed erano sostituiti dal declamato drammatico e le vecchie divisioni convenzionali dei numeri staccati erano abolite.
L’opera venne rappresentata anche a Londra dove il critico G. B. Shaw dette a Verdi il benvenuto nel club dei musicisti bene: l’opera diventava dramma serio unito a musica appropriata.
Alcuni critici non apprezzarono lo spostamento della massima espressione del sentimento all’orchestra piuttosto che ai cantanti e si arrivò a pensare che tale affievolimento della vena melodica fosse dovuto alla tarda età del Maestro.
Busoni nota che nell’Otello nessuna scena si dispiega in un vero e proprio pezzo di musica, nessuna frase si apre in una vera e propria melodia. Del Credo di Jago Busoni apprezza solo il tema vigoroso di energiche ottave, per il resto è un motivo che “vorrebbe avere un carattere diabolico ma in realtà sembra solo goffo” e continua con critiche di questo tipo. In pratica Otello e Falstaff divengono bersaglio di una critica malevola e astiosa di coloro che credono di aver scoperto le recondite bellezze delle opere giovanili di Verdi. Quindi si giunge alla liberazione dalle forme strofiche e motiviche tra critiche e apprezzamenti.
Il personaggio di Jago è molto controverso e discusso; Bacchelli ritiene che Jago somigli di più al tradizionale baritono malvagio che non al Jago di Shakespeare e dei desideri di Verdi. Spesso la sua figura viene “rigolettizzata” vedendo nel Duetto del giuramento un’eco di “Sì vendetta, tremenda vendetta”, discutibile in quanto non è Jago a intonare l’inno di vendetta ma Otello, Jago lo segue per calcolo: Rigoletto subisce ingiustizia, Jago la esercita. Verdi stesso scrive che sarebbe un errore per un artista interpretare il personaggio di Jago come una specie di uomo demone a cui mettere in faccia un ghigno mefistofelico o far fare gli occhiacci satanici. Il comportamento di Jago è da uomo, scellerato, ma uomo, deve essere bello e apparire gioviale e schietto. A questa immagine si attenne il baritono Maurel.
Jago sia nel dialogo con Roderigo, sia in quello con Cassio e con Otello esibisce modi di cordiale disinvoltura. Anche la cadenza è contrassegno della doppiezza di Jago, mentre per Desdemona è espressione della sua innocenza. Finzione e schiettezza sono accomunate dal fatto che la prima ha per scopo quello di simulare la seconda, pertanto si assomigliano ed usano lo stesso linguaggio sotto segno diverso. Il capolavoro della sottigliezza di Jago è, appunto, l’insinuazione della gelosia in Otello.
Jago, in realtà, è il male per il male, compiuto quasi per bisogno artistico. Per lo stesso Boito “Jago non è Mefistofele… egli è il male compiuto per attuare il proprio essere…Jago è l’invidia…un arrampicatore sociale…la sua è una frustrata volontà di potenza”. In Shakespeare si intuisce che Otello possa aver tradito Jago con la propria moglie o che Jago fosse segretamente innamorato di Desdemona, ma Boito non coglie queste insinuazioni.
Verdi, durante la progettazione dell’opera, la designò più volte col titolo di Jago e, nel 1885, alla ripresa del lavoro dopo una pausa, scrisse a Ricordi: “Jago è il demonio che muove tutto”, ma è Otello che agisce, è lui che ama, è geloso, uccide e si uccide. Verdi preferì essere criticato per aver voluto affrontare un gigante come Otello piuttosto che essere tacciato di aver voluto nascondersi sotto il titolo di Jago.
Per quanto riguarda la vocalità delle opere mature Otello e Falstaff, è più corretto parlare dell’abolizione del recitativo che dell’aria in senso stretto poiché le cabalette scaturiscono quando la situazione lo domanda. Quindi, non è l’aria ad essere eliminata in favore di un recitativo più declamato, ma nasce un nuovo linguaggio lirico che è a metà tra aria e recitativo. Il critico Karl Holl afferma che la musica è serva di parola e azione poiché ottenuta grazie al dominio del canto. Nell’Otello, Verdi, crea una tastiera di registri dell’espressione vocale che esplora tutti i tipi di tecnica; il tutto sfocia in cinque registri che vanno dalla vera e propria forma chiusa al parlato attraverso il cantabile, il declamato melodico e il ridottissimo recitativo tradizionale. I cinque registri vocali sono “chimicamente instabili” poiché si trasformano e trapassano l’uno nell’altro, per cui non è semplice dare un taglio netto tra cantabile e declamato melodico che sostengono la nuova continuità drammatica in cui consiste la grandezza di Otello. Il cantabile spicca dal tronco del declamato come un’efflorescenza melodica più declamata dando o un senso positivo o di sarcasmo, o di parodia o di perfida insinuazione. Tutta l’opera è incentrata sul declamato melodico pronto a divenire cantabile o parlato, che è lo stile tipico del personaggio di Jago come è evidente nel Credo che diversamente da quanto si dice, non è un’aria e nemmeno un arioso, ma un capolavoro di recitativo espressivo. Il declamato sostituisce quasi del tutto il recitativo e permette la continuità e l’autonomia dell’opera poiché basta a se stesso a differenza del recitativo che è subordinato, introduce un’aria, ha corto respiro ed è fatto di frasi brevi. Il parlato o parlando è una recitazione intonata su una sola nota che termina in un intervallo per lo più di seconda proprio come nel discorso. Verdi lo trasforma in uno dei mezzi più efficaci con cui si esplica il dramma musicale. Se Jago è il maggior campione del libero declamato, Otello e Desdemona lo sono del parlato. La musica fa da padrona nei due grandi monologhi di Otello che risultano essere vere e proprie “cabalette del parlato” basate su una sillabazione delle frasi che si sgonfiano e portano al cantabile. Per sollevare la povertà del parlato, l’armonia ha un ruolo determinante come ad esempio l’utilizzo di inquiete evoluzioni che compie, in orchestra, la figura ossessiva di una terzina di semicrome attraversando varie armonie e gradi alterati.  
Verdi aveva accarezzato l’idea di un Otello senza cori e, infatti, il coro, è un punto debole dell’opera. Già la scena iniziale vede l’introduzione di Offiziali e Senatori insieme ai protagonisti che non avrebbe potuto prescindere dalla partecipazione corale: qui il coro non descrive, ma mette in atto l’uragano che presto si scatenerà nell’animo di Otello. Dopo l’Esultate di Otello, il coro maschile del popolo, attacca “Vittoria”: in questa splendida pagina corale, però si annida un baco dovuto allo stile sillabato che ci riporta indietro di mezzo secolo. Poi vi è un intermezzo recitato del dialogo di Roderigo e Jago cui segue il coro misto “Fuoco di gioia!” non ben apprezzato dai critici.  Anche il coro del secondo atto desta riserve: Boito voleva una Serenata come “la dolce apoteosi di Desdemona”, e Verdi lo vedeva come “uno sprazzo di luce tra tanto scuro”.
Di concertati, nell’Otello ce ne sono due: un Quartetto nel secondo atto e un Sestetto con coro nel terzo. In questi due concertati, Otello è presente ma canta a parte: nel Quartetto canta a parte, quasi che non fosse presente alla conversazione poiché rimugina tra sé le ragioni dei suoi sospetti, mentre Desdemona gli si rivolge per chiedere perdono, Jago litiga con Emilia fino a strapparle il fazzoletto.  Proprio i concertati che erano stati l’escamotage per far andare avanti l’azione, diventano, nell’Otello, un modo per fermarla. L’Osborne scrive: il Quartetto è uno di quegli straordinari pezzi verdiani in cui il conflitto dei sentimenti dei vari personaggi predomina chiaramente e si fonde in un tutto omogeneo. Questo Quartetto è portato avanti ritmicamente da Jago ed Emilia, mentre melodicamente, è Desdemona che da sostanza espressiva e Otello ha un valore del tutto secondario. Il dialogo tra Emilia e Jago deve essere detto in tono sottomesso, ma deve spiccare chiaramente poiché l’azione scenica è marcata nei gesti, mentre i personaggi rimangono pressoché immobili.
Il Sestetto è un concertato che ricorda ancora la vecchia forma. Verdi diede disposizioni sceniche per l’esecuzione: sottolinea che la parte di Desdemona rappresenta la grande linea melodica, nella quale si esprime l’angoscia ed il dolore della donna e della sposa atrocemente offesa, per cui le frasi affannose e gli scoppi di pianto devono avere la più efficace espressione; Jago sembrerebbe avere una parte accessoria, ma non è così, in quanto il testo esprime chiaramente l’importanza del personaggio stesso, ben sottolineata dalla musica. Jago e Desdemona sono, quindi, le figure principali di questo quadro: l’astuzia maligna e il dolore rassegnato. Queste due figure hanno bisogno della cornice degli altri personaggi e delle masse corali e orchestrali. Il Coro è diviso in tre grandi gruppi, da un lato i tenori, al centro soprani e contralti, dall’altro lato i bassi. Questi tre gruppi sono a loro volta divisi in molti piccoli gruppi ben distinti, in modo che le molte parti intrecciate risultino, però, distinte e lascino campeggiare le frasi drammatiche di Jago. Questo Sestetto, in realtà, blocca la scena proprio come facevano le arie ottocentesche. Di Shakespeare, Boito mantiene i versi per il Recitativo; poi, però si allontana da Shakespeare facendo entrare Cassio nella scena e dando vita al concertato che esprime la desolazione di Desdemona, la stupefazione di Lodovico, la pietà di Emilia, il dolore di Roderigo innamorato, l’agitazione di Cassio e le perfide esortazioni di Jago ad Otello, che nella sua grandezza di personaggio, non può scendere a livello degli altri e, pertanto, aggiunge solo per un momento la sua voce, nella frase “che glie la svelle - tal sia”. L’ingresso di Cassio, in questa scena, è voluto da Verdi per avere nel concertato un tenore, visto che Otello è pressoché muto. Alla stesura del Sestetto, Verdi suggerì a Boito le parole da versificare. La complessità di questo pezzo, con sette personaggi ammucchiati, presentava anche problemi tipografici di impaginazione, per agevolare il più possibile il pubblico che avrebbe avuto tra le mani il libretto e per concentrare la loro attenzione sull’Aria di Desdemona “E un dì sul mio sorriso”, che si muove leggera sopra la confusione delle altre parti.
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